L'anima nera della birra

27 Settembre 2017L'anima nera della birra

Indubbiamente, parlando di birre scure, farà sorridere l'idea di voler fare un po' di "chiarezza" ma è esattamente il mio intento. Una delle domande più frequentemente poste dai cosiddetti "beer geek", personaggi spesso stravaganti che provano un entusiasmo quasi fastidioso nei confronti delle birre, è: Quale differenza c'è tra una Stout e una Porter? Dovessi rispondere a bruciapelo e senza esitazioni, direi: nessuna! Questo però finirebbe con il tradire le mie buone intenzioni e, soprattutto, getterebbe alle ortiche tutto il fulcro di questo articolo.

Armatevi di un briciolo di curiosità e vediamo come mai non è poi così banale liquidare cosi brevemente questa domanda. Immaginatevi a Londra, nel 1722. Ma immaginatevi anche stanchi e sporchi mentre caricate e scaricate merci dalle navi del porto. Siete dei facchini, siete dei facchini del porto, siete dei "Porter". Suona una sirena e cambia il turno, vi scrollate la fatica di dosso e andate in cerca di qualcosa che possa radicalmente mettervi di buon umore ma che sia al tempo stesso anche nutriente. Se a questo punto entrate in un Pub siete fortunati, perché è il primo anno in cui hanno inventato una birra dedicata a voi. Nascono così le Porter, birre scure di carattere segnate da un buon corpo, un'ottima bevibilità e, come già detto, un certo valore nutrizionale. Per quasi un secolo e mezzo fu la birra più popolare in Gran Bretagna e quindi, come naturale conseguenza, nei primi dell'800 iniziò a farsi strada una variante più alcolica e robusta della tradizionale Porter: La Stout. "Stout" quindi era semplicemente un termine utilizzato per descrivere una variante più forte, una sorta di fratello maggiore, di un altro stile. Frequente, infatti, era anche la dicitura "Pale Stout" (Quindi una Birra bionda – pale ale - con un maggior contenuto alcolico; impensabile ai giorni nostri accostare i due nomi). Correntemente si producevano quindi delle "Strong Porter", "Porter Stout" e dopo un po' anche semplicemente delle "Stout" che, sia per il birraio, sia per il consumatore si riferivano alla medesima categoria di Birra.

Addirittura nei primi dell'800 la ricetta per una Stout e una Porter era esattamente la stessa, l'unica variante era il mosto prodotto per l'una o l'altra birra. Partendo da una medesima quantità di malti, i birrai utilizzavano una minor quantità d'acqua per la loro Stout rispetto alla Porter e ottenevano così un mosto più concentrato che avrebbe poi portato ai benefici già descritti. In parole povere, laddove una Porter aveva una gradazione alcolica media di 5,7% vol. una Stout si presentava con 7,7% vol. Senza alcun tipo di ordinamento in merito non era desueto, però, ritrovarsi con Porter di un determinato Birrificio, più alcoliche delle Stout di altri. Il primo vero crocevia tra le due tipologie avvenne nella seconda metà del XIX secolo, quando i Birrai Londinesi iniziarono ad utilizzare per le loro Stout una maggior quantità di malto Brown, e una conseguente diminuzione di malto Black. Questo produsse mosti con una maggior quantità di zuccheri, quindi birre più forti ma soprattutto più morbide, dolci e rotonde, avendo difatti diminuito il carattere tostato dato dal malto black. Giunti alle porte della prima guerra mondiale, l'inasprimento delle tasse colpì anche la produzione di birra e i produttori si videro costretti ad abbassare progressivamente le densità dei propri mosti nel tentativo di mantenere un costo di produzione contenuto in grado di non far impennare il conseguente costo delle pinte al Pub. Si arrivò quindi a valori medi in percentuale alcolica di 5,5 per una Stout e 3,8 per una Porter. La tassazione proseguì per tutto il periodo post bellico e questo comportò una costante diminuzione della domanda nei confronti di una birra ormai spogliata della sua dignità: La Porter. Con il passare degli anni, e con le vendite delle Stout stabili, s'iniziò a credere che le Porter fossero delle Stout di qualità inferiore, e quando si riporta il tutto sul piano della qualità c'è ben poco da fare.

"Porter" non era più lo stile bensì un banale sotto-stile. Ruoli completamente invertiti. Le produzioni si concentrarono ovviamente verso un prodotto sempre in voga e man mano abbandonarono le origini dello stesso. La Porter si estinse così negli anni '50 del secolo scorso. Fu solo grazie alla prima pubblicazione de "La guida alle Birre del Mondo" del compianto Michael Jackson (no, non quel Michael...) che nel 1977 il mondo ricordò questo stile ormai decaduto e lentamente, ricreando curiosità, furono riprodotte in diverse zone. Oggigiorno, come "spoilerato" all'inizio, non assistiamo a significative differenze nel bicchiere né, tantomeno, a livello di produzione. Rifacendoci al BJCP (Beer Judge Certification Program), ente che si prefigge il compito di catalogare gli stili birrari, notiamo
una sostanziale sovrapposizione su caratteristiche fondamentali come la lista degli ingredienti e sulla durezza dell'acqua di processo. Forse, l'unica vera differenza viene evidenziata in un generale riflesso color rosso rubino presente nelle Porter paragonato ad
una sostanziale impenetrabilità di luce, o al massimo leggeri riflessi granati, nelle Stout. A conti fatti, un pugno di mosche. A chiudere quasi definitivamente l'argomento ci ha pensato Martyn Cornell, pennino lucente del panorama brassicolo Inglese, con una
personale ricerca: analizzando le descrizioni di esperti su trenta birre Inglesi, tra Stout e Porter, presenti su un'illustre guida, ha annotato caratteristiche tecniche e sentori emersi dalle degustazioni, tornando ancora una volta, benché su un campione ristretto, ai nostri precedenti risultati.

L'unica vera differenza quindi, fu quella che fu. Ma cosa succede invece quando si affronta il micro-macro mondo dei sotto-stili o di birre totalmente diverse ma accomunate dal denominatore cromatico?
Facciamo la conoscenza di Oatmeal Stout, cremose grazie all'aggiunta di Avena. Milk Stout, dolci e morbide grazie all'uso in ricetta di lattosio, il quale, producendo molte destrine non fermentescibili, lascia nella birra finita diversi zuccheri.
Oyster Stout, golosa e antica ricetta che prevede l'utilizzo di ostriche (avete letto bene) in bollitura per una birra ricca di mineralità, morbidezza e sfumature salmastre. Le vellutate e alcoliche Eisbock tedesche (almeno nelle versioni più scure) che fanno
della propria robustezza e del carattere maltato il proprio vanto. Golose le complessità delle Russian Imperial Stout, dotate di pienezza gustativa assimilabile a un Barleywine e aromi molto variegati che vanno dalle susine al pepato e dal cioccolato fondente al vinoso.

Le Black IPA, impenetrabili luppolate. Destabilizzanti per il loro duplice carattere: luppolato in aroma (tropicale, resinoso, boisé...), e maltato al gusto (toffee, frutta secca...).
E decine e decine di altre interessanti birre...
Un'unica grande somiglianza cromatica, che rivela però all'assaggio mondi molto lontani. Vediamo qualche esempio di queste affascinanti "anime nere".

Tratto da Vitae n.12 dell'AIS - Scritto da Riccardo Antonelli